L'ILLEGITTIMITÀ DI UN REGIME POLITICO

 

(riflessioni sulla legge n.198/93 del 9.6.93 che definisce illegittimo, illegale e criminale il regime comunista instaurato in Cecoslovacchia il 25.2.48 e dichiara legittima la resistenza contro di esso)

 

di Vaclav Belohradsky

 

(in "FUTURIBILI", 3, 1994,  rielaborato nel mese di aprile 2001)

 

Abstract:

L'autore propone una riflessione sulla legge n.198/93 del 9.6.93 che de­finisce illegittimo, illegale e criminale il regime comunista instaurato nel paese il 25.2.1948, dichiarando legittima la resistenza contro di esso. La legge solleva due questioni: 1) in quale misura il dichiarare criminale e illegittimo tutto un regime politico implica che giudizi storici diventino leggi e che dunque certe azioni ven­gano oggi giudicate in base a conoscenze ed esperienze di cui coloro che le hanno compiute non potevano disporre allora; 2) qual è la teoria di legittimità sotto­stante questa legge. Il preambolo della legge dichiara il Partito comunista ceco­slovacco responsabile per la sostituzione dell'economia di mercato con l'economia di comando centralizzata e per l'abolizione dei diritti di proprietà. La disfunzio­nalità dell'economia statalista era qualcosa che si poteva già sapere nel 1948? Non implica ogni legge - che mira a riparare una colpa storica - una "retroattività cognitiva", cioè una trasformazione delle opinioni vigenti in leggi? Nella parte ar­gomentativa della legge, si dichiarano illegittime tutte quelle leggi che (a) sono in contrasto con i principi morali che reggono la società civile; (b) non corrispon­dono all'idea di legge, cioè non sono universali in quanto il legislatore, cioè il Pcc, non è tenuto a rispettare le leggi che impone a tutti i cittadini; (c) non am­mettono alcuna via legale per essere modificate.

 

1. Il concetto di legge e l'illegittimità di un regime

 

Il 9 giugno 1993, il Parlamento ceco ha votato a larga maggioranza la legge n.198 che inserisce nella Costituzione nove paragrafi di condanna in toto del regime politico instaurato in Cecoslovacchia il 28 febbraio 1948 dal Partito comunista cecoslovacco (Pcc). Questo regime viene dichiarato "illegittimo e criminale" per cui la resistenza - anche armata - contro di esso viene definito ab initio moralmente giustificata e legittima. Siamo qui di fronte ad una legge che conferisce la validità giuridica ad un insieme di giudizi pertinenti alle teorie economiche, alla ricerca storica, alla teoria dei sistemi politici, alla filosofia politica e alla filosofia morale. Prima di presentare la sintesi della legge n.198 vorrei ricordare brevemente lo sfondo storico del grande successo culturale e morale del comunismo cecoslovacco che, dopo la Seconda guerra mondiale, si è trasformato in un grande successo elet­torale del Partito comunista cecoslovacco che sfociò nella conquista legale del potere il 28 febbraio 1948.

Il Partito comunista cecoslovacco conquistò nelle prime elezioni libere del dopoguerra (maggio del 1946),  circa il 43% dei voti in Boemia e il 34% in Moravia. Questo incredibile successo era in assoluta discontinuità con il ruolo piuttosto modesto svolto dal Pcc nella repubblica cecoslovacca anteguerra, nella cosiddetta "prima repubbli­ca". Dobbiamo infatti situarlo nel suo contesto storico: anzitutto si trattava di una reazione psicologica di massa all'esperienza tragica del "Patto di Monaco", cioè all'abbandono della repubblica cecoslovacca da parte della Francia e dell'Inghilterra nel 1938. Il tradimento egoistico e politicamente miope della Cecoslovacchia da parte delle potenze democratiche ha eroso il prestigio e l'autorità della democrazia liberale in Europa centrale rendendo generale ed urgente la domanda di un riorientamento della politica estera cecoslovacca, del suo sistema di "alleanze internazionali". Larghi strati della popolazione condividevano con il presidente Benes la convinzione che l'Unione Sovietica avrebbe svolto nel dopoguerra il ruolo di garante del nuo­vo ordine europeo e sarebbe stato il punto di riferimento durevole della sicurezza della repubblica cecoslovacca liberata dall'occupazione tedesca.

 

Vi è comunque una ragione più profonda della grande popolarità del comunismo nel secondo dopoguerra cecoslovacco. A differenza del libera­lismo, il comunismo si integrava perfettamente in ciò che possiamo definire il "mito costitutivo" dello stato cecoslovacco. La moderna coscienza nazio­nale boema si è infatti formata attraverso la mitizzazione di un periodo piuttosto contraddittorio della storia del regno di Boemia, noto come guerre hussite: l'hussitismo, che culminava negli anni 1415-1435, fu inter­pretato dal maggiore storico risorgimentale Palacky come la testimonianza di rilevanza storica mondiale dell'antica volontà di democrazia che caratte­rizzava tutta la cultura politica della nazione ceca e, così definita, si opponeva "naturalmente" a quella tedesca definita antidemocratica ed imperialista; il risorgimento si ricol­legava all'hussitismo mitizzandolo come fondamento legittimante ideale dell'identità della nazione. Nasce così un'infinità di opere d'arte che elevano questo periodo a momento più tragico e intenso della storia céca. Lo presentano come dimostrazione del ruolo mondiale che la cultura boema ha svolto nel passato, combattendo con "grande anticipo sulle altre nazioni europee" per una grande idea, cioè per la riforma religiosa e l'autonomia della coscienza (che sono due pilastri della modernità).

Questa linea è sempre influente nelle diverse narrazioni delle vicende storiche della na­zione, basta riportarla in superficie, enfatizzarla, farne il centro della "questione ceca" per renderla attuale e mobilitante, per trasformarla in un movimento di massa in lotta per la sua identità storica. Gellner (1992) sostiene che il nazionalismo si basa sulla lealtà verso una cultu­ra di socializzazione che non è più locale, ma legata alle narrazioni univer­salistiche rese materia obbligatoria d'insegnamento nelle scuole di stato. Ora la mitizzazione di questo periodo è il contenuto principale della cultu­ra di socializzazione propria del risorgimento céco: la letteratura, la grande e prestigiosa tradizione operistica céca, l'insegnamento della storia nelle scuole, i monumenti e i nomi delle strade concorrono a trasformare il movimento hussita in un efficace simbolo dell'identità nazionale che ga­rantisce la legittimità delle rivendicazioni politiche di autonomia dei cechi nei confronti dei tedeschi. La sconfitta delle truppe protestanti sulla Monta­gna bianca nel 1620, il primo episodio della Guerra dei Trent'anni, segna in questa prospettiva il principio di una violenta ed ingiusta riduzione del Regno di Boemia, uno stato di antica sovranità, all'appendice dell'Austria dominata dai tedeschi. Incomincia allora l' "epoca del buio" come dice il titolo di uno dei romanzi storici più celebri della letteratura ceca, il Temno. Il risorgimento cerca dunque di riannodare il filo che legava la nazione al suo "passato glorioso" e che fu spezzato "dalla brutale mano dell'invasore". Tutta la cultura risorgimentale si ricollega "alle migliori tradizioni nazio­nali" testimoniate dalla storia nazionale, ma occultate dallo straniero "anti­democratico", cioè dai tedeschi.

Nell'interpretazione di Masaryk, il fondatore e primo presidente dello stato indipendente del dopoguerra, la nascita della "prima repubblica céca" è stata la realizzazione delle aspirazioni "più profonde" che hanno ispirato la riforma religiosa (Hus, Komensky, Masaryk). La conseguenza politica­mente più importante del fatto che alla base dello stato vi era questa narra­zione legittimante è stata la "messa dei cattolici fuori della ragion di stato"; la Chiesa cattolica si è trovata dentro la nuova repubblica nel ruolo di ne­mico storico, di complice dello straniero. Ora, dopo la sconfitta del nazismo e il ritorno all'indipendenza politica della repubblica cecoslovacca, i comunisti si so­no presentati sulla scena politica come "eredi naturali degli hussiti", come coloro che meglio di ogni altra forza politica continuano la tradizione de­mocratica céca accentuandone nello spirito dei tempi il contenuto sociale. Questa auto-interpretazione dei comunisti è sembrata convincente a larghi strati della popolazione céca, la cui cultura di socializzazione era quella che abbiamo descritto più sopra.

Vi è un altro punto importante. Il processo di germanizzazione era talmente avanzato nel XVIII secolo che l'uso della lingua céca soprav­viveva ormai solo in campagna come idioma dei contadini semi-analfabeti, come una sorta di dialetto delle classi inferiori, come lingua da usare per dare ordini ai servi, bastarda in quanto invasa da germanismi storpiati. Mancava totalmente una lingua letteraria e scientifica. Per questa ragione il risorgimento era vissuto come un ritorno alle radici popolari della cultura nazionale, alla vita "semplice e autentica" del popolo. Manca totalmente un partito liberale. Anzi, la parola "liberalismo" diventa presto una specie di insulto, con cui si voleva indicare l'indifferenza religiosa e sociale, del tutto estranea all'anima popolare del risorgimento céco e, in fin dei conti, espressione dello straniero.

In termini sociologici possiamo forse dire che la nazione céca era caratterizzata da una debole stratificazione sociale, per cui il potere era "pellegrino", cioè non era controllato stabilmente da una élite profonda­mente radicata nella tradizione politica nazionale. La conseguenza di que­sta situazione fu il ruolo determinante che l'ideologia ha acqui­sito in politica quale compensazione della stratificazione sociale debole o quale sostituto funzionale del potere delle élite.

Ora, il comunismo era eccezionalmente adatto per svolgere un grande ruolo nello Stato cecoslovacco rinnovato del dopoguerra. Si presentava, infatti, come una continuazione perfettamente naturale della grande narrazione costitutiva della nazione céca, per cui la riforma religiosa sembrava completarsi nella lotta per la democrazia sociale che la prima repubblica non era in grado di realizzare, nonostante la statura morale e politica di Masaryk, che gli stessi comunisti riconoscevano.

Spetta così ai comunisti portare a compimento l'idea che anima tutta la storia céca e che si manifesta sì in forme diverse, ma il cui "zoccolo duro" è indubbiamente la "democratizzazione radicale" di tutta la società, a partire dall'accesso delle masse alla cultura. Ed ecco che Nejedly, uno storico romantico e nazionalista, nato nel 1870 e divenuto nel febbraio 1948 Ministro della pubblica istruzione nel primo governo comunista cecoslovacco, ha coniato e, poi, imposto amministrativamente in tutte le scuole, la formula secondo cui "i comunisti sono gli eredi delle tradizioni migliori del risorgimento a partire dall'hussitismo" che non era in realtà - secondo la sua concezione - che una rivoluzione sociale travestita da rivoluzione religiosa. La formula di Nejedly è diventata il punto di riferimento permanente dell'interpretazione ufficiale della storia nazionale. Una campagna ideologica molto intensa, sistema­tica, ricattatoria e infine violenta (cinema, letteratura, storiografia ufficiale) in favore di questa formula l'ha trasformata velocemente in un fondamento condiviso, e certo non del tutto privo di credibilità per la maggioranza della popolazione, di quella cultura di socializ­zazione verso cui lo stato nazionale pretendeva che i cittadini fossero leali nel senso di Gellner. Nonostante tutti gli eccessi e le evidenti unilateralità di questa costruzione storica, essa è ancora oggi intensamente condivisa dalla maggioranza della nazione, seppur in un senso più morale che ideologico.

L'ultimo punto che bisogna ricordare in questo contesto concerne i rap­porti con la minoranza dominante, cioè con i tedeschi. Tutto il risorgi­mento era nazionalista nel senso di specificamente "anti-tedesco". La storia po­litica dei tedeschi veniva interpretata come dominata da una tendenza antidemocratica intrinseca, contro cui le forze "migliori della nazione ceca" hanno combattuto da sempre. La Costituzione dello stato cecoslovacco nei confini storici del Regno di Boemia più Slovacchia ha avuto come conse­guenza l'inclusione di una consistente minoranza tedesca, radicalmente ostile all'idea di vivere in uno stato cecoslovacco, dato che da secoli erano privilegiati politicamente dallo stato austriaco.

L'affermarsi del nazismo in Germania ha trasformato la maggioranza di questi tedeschi cecoslovacchi in decisi sostenitori dello Heim ins Reich, cioè del "ritorno alla patria te­desca" di quelle terre (comunque mai tedesche nei mille anni di storia del Regno), dunque del secessionismo. Essi invitano Hitler a distruggere militar­mente la Cecoslovacchia e l'ottengono infine nel 1938 grazie all'incredibile miopia politica e militare della Francia e dell'Inghilterra. In questo con­testo, il Partito comunista cecoslovacco che si presentava come simbolo del­la solidarietà panslava incentrata sulla potenza militare russa, veniva visto favorevolmente anche da una parte notevole della destra nazional-populista il cui programma tradizionale era filorusso (volevano, ad esempio, un Romanov sul trono di Boemia). I residui ancora vivi e potenti del pansla­vismo erano una fonte non trascurabile del consenso al comunismo e una delle cause del suo successo nel 1946, quando l' "invincibile armata rossa" ha dato prova davanti al mondo intero della "gloriosa grandezza slava". La storia dello stato cecoslovacco si è conclusa il primo gennaio 1993 quando nascono due repubbliche indipendenti, la ceca e la slovacca.

Ecco le date dei maggiori insuccessi storici di questo stato: 1938 - il Patto di Mo­naco decreta la cessione pacifica a Hitler dei territori abitati dai tedeschi; 1939 - la separazione dei slovacchi dalla repubblica i cui resti lo stesso giorno vengono occupati dai nazisti (15.03.1939); 1948 - i comunisti sfrut­tano l'occasione offerta loro dalle dimissioni intempestive dei ministri dei partiti democratici per conquistare tutto il potere (25.2-28.2); 1968 - la fine della Pri­mavera di Praga, imposta ai dirigenti comunisti cecoslovacchi dalle armate del patto di Varsavia con l'invasione militare di tutto il paese che ha avuto luogo nella notte del 21 agosto; 1992 - le elezioni politiche danno in Slo­vacchia la maggioranza relativa alle forze secessioniste e la separazione pacifica avviene poi l' 1 gennaio 1993.

Questi insuccessi costringono gli intellettuali cecoslovacchi ad una revisione più o meno dolorosa dei miti costitutivi dello stato, particolarmente dell'hussi­tismo, della prima repubblica, della concezione masarykiana della nascita dello stato cecoslovacco come fase di una rivoluzione mondiale democra­tica, e della cultura politica che privilegiava in modo massiccio e semplicistico il socialismo come l'unica forma legittima dell'organizzazione politica ed economica dello Stato.

Ora, anche la questione della colpa comunista, della criminalità del regime instaurato dal Pcc, deve essere analizzata in questo contesto. La domanda è: la criminalità del regime comunista, che è generalmente riconosciuta, deve obbligatoriamente essere estesa anche ai miti costitutivi dello Stato cecoslovacco, i quali debbono essere, per conseguenza, sottoposti ad una critica radicale, in quanto in forza di questi miti fu possibile l'imporsi del totalitarismo comunista nel paese? Dobbiamo di­struggere i vecchi miti cechi o viceversa dobbiamo riconoscere che il so­cialismo è un'aspirazione naturale del popolo, di cui i comunisti hanno abu­sato senza però comprometterne la giustificazione e la razionalità storica? Ricordiamo, ad esempio, la Primavera di Praga. Molti cecoslovacchi si immaginavano che la caduta della nomenklatura politica insediata al potere dalle forze di oc­cupazione nel 1968 avrebbe avuto per conseguenza naturale un risveglio immediato delle idee del Sessantotto. Il 1989 non sarebbe stato così l'inizio di una ri­costruzione del capitalismo e della democrazia liberale, ma il ritorno agli ideali storici del socialismo riformista. Dichiarare il comunismo come un intruso ab initio illegittimo nella storia céca, è stato senza dubbio un colpo crudele inflitto al gruppo politico "dubcekiano-riformista" che si riconosceva nel Sessantotto.

Questo, dunque, è a grandi tratti lo sfondo storico e culturale del dibattito in cui il varo della legge n.198 si situa.

 

2. Lustrace

 

La legge n. 198 è stata preceduta da due leggi che sono state adottate dopo la caduta del comunismo con lo scopo di riparare almeno parzial­mente le ingiustizie del regime comunista, riducendo alcuni vantaggi scanda­losi, di cui continuava di fatto a godere la nomenklatura del Pcc. Queste leggi rimediavano con accettabile efficacia alle ingiustizie che certe perso­ne identificabili hanno perpetrato a danno di altri individui identificabili e an­nullavano i vantaggi che erano il frutto dell'esercizio del monopolio di po­tere del Pcc. Rimediavano inoltre ad alcune "rapine di regime", senza però af­frontare "complessivamente" il problema delle ingiustizie "storiche", di quelle, cioè, che non potevano essere attribuite alle azioni specifiche di certi individui o alle leggi specifiche adottate in date precise dal parla­mento comunista, ma al regime come tale, al suo stesso funzionamento e impostazione filosofica.

La prima legge riparatoria concerne le restituzioni delle proprietà espropriate alle persone fisiche dopo il 25 febbraio 1948. Naturalmente, le restituzioni hanno delle esternalità negative in quanto colpiscono la vita di tutti danneggiando coloro che non erano né autori né partecipi dell'ingiustizia in questione, cioè dell'esproprio forzato del bene in questione, ma che hanno goduto dei frutti derivanti dal suo uso, abitando ad esempio una casa espropriata o svolgendovi la loro attività di lavoro. Le restituzioni complicano inoltre i rapporti di proprietà, perché la giustizia urta contro la storia, contro i rapporti concreti che la storia di quarant'anni di regime ha generato. Molti sentono oggi la perdita improvvisa del diritto all'uso delle cose che non hanno rubato, anzi migliorato e valorizzato attraverso il loro lavoro, come una nuova ingiustizia.

La seconda legge riguarda le cosiddette lustrace, dal verbo latino "lustro" che significa "rischiarare" o anche "esaminare". Si tratta di una legge che protegge le più alte cariche istituzionali dalle persone che erano collaboratori della polizia segreta (STB). Consiste in questo: ogni pretendente ad una carica soggetta alle lustrace deve presentare un certificato in cui l'ufficio apposito del Ministero degli interni dichiara che il suo nome non è compreso nell'elenco dei collaboratori segreti della polizia politica "nel senso degli articoli di legge che specificano i requisiti di una collabo­razione consapevole e intenzionale con la polizia segreta". L'accesso all'ar­chivio della polizia segreta è sotto il controllo del Ministero degli interni, anche se si sono verificati casi importanti di fuga di dati che in seguito so­no stati usati per "distruggere politicamente" certe persone. I problemi più drammatici li ha sollevati la categoria del "candidato alla collaborazione" (categoria C) in quanto si poteva venir iscritto nell'elenco dei candidati senza saperlo e vi si rimaneva iscritto anche dopo che il "candidato" ha op­posto un rifiuto netto alla collaborazione. Questi problemi sono stati infine superati, anche se permangono molti dubbi circa l'efficacia del ricorso con­tro danni che derivano a persone innocenti, ad esempio, da una iscrizione falsificata nell'elenco dei collaboratori fatta in modo totalmente arbitrario da certi agenti che perseguivano in questo modo i propri scopi di "carriera". Chi può testi­moniare in questi casi in quale misura gli eventuali testimoni possono esse­re considerati affidabili?

Dopo una lunga, intensa e drammatica discussione pubblica svoltasi in tutto il paese, il parlamento céco ha infine votato il 9 giu­gno 1993 la legge n.198 che definisce il partito comunista (insieme a tutte le altre orga­nizzazioni fondate sulla stessa ideologia) come organizzazioni criminali, dichiarando il regime da esse instaurato ab initio criminale, illegittimo e oggetto di resistenza giustificata.

Vorrei riflettere su diversi aspetti di questa legge che io vedo nel contesto della più grande questione del nostro secolo: in che misura i citta­dini sono colpevoli, se ubbidiscono ad uno stato criminale? Che cosa rende criminale uno stato e chi può dichiararlo tale? Che tipo di colpa è quella di non ribellarsi alle leggi di uno stato criminale di cui si nasce cittadino? Del resto, chi è del tutto esente da questo tipo di colpa visto che tutti gli stati hanno commesso gravi crimini in certi momenti della loro storia? Le cele­brazioni colombiane hanno dato luogo, l'anno scorso, ad una ridiscussione piuttosto radicale delle colpe storiche della cristianità e dell'Occidente nel suo complesso. Solzenicyn partecipando alla festa della Vandea ha detto che la repressione della rivolta di Vandea fu il primo presagio degli olo­causti del XX secolo, del secolo degli estremi e dei totalitarismi.

Che rapporto vi è tra i valori della modernità e i massacri sistematici dei propri cittadini perpetrati dagli stati totalitari? In che modo lo stato francese o la cultura francese ne può essere dichiarata colpevole "ancora oggi" o, in un senso radicale, "per sempre", a "memoria eterna"? In che modo sono colpevoli i contadini australiani, neozelandesi ed americani per i massacri e le rapine perpetrate dai loro avi in quelle terre? Perché un riconoscimento di colpa, ad esempio, culturale e morale che gli australiani o americani esprimono non dovrebbe implicare anche un'azione di ripa­razione, ad esempio, una restituzione o almeno una ridistribuzione dei van­taggi che derivano "oggi" dai crimini "di ieri" a certi individui o gruppi? Credo sia più produttivo vedere il tema nel contesto di tali questioni più generali, piuttosto che in quello banale, e troppo ristretto, della transizione dei paesi post-comunisti verso la democrazia.

 

 

3. Che cosa rende un regime illegittimo?

 

Riassumiamo ora la legge n. 198 che è da considerarsi anche come una dichiarazione dei princípi filosofici cui vorrebbe informarsi il regime democratico instaurato in Cecoslovacchia con le elezioni del 1990. Il preambolo della legge recita:

"Il Parlamento della Repubblica ceca, consapevole del dovere di confrontarsi con il regime comunista e di restaurare la giustizia nei confronti delle sue vittime, constata che il Partito comunista cecoslovacco, la sua dirigenza e i suoi membri, sono responsa­bili per il modo in cui è stata governato il nostro paese negli anni 1948-1989, particolarmente per la distruzione programmatica dei valori tradi­zionali della civiltà europea, per le violazioni dei diritti umani, per la deca­denza morale ed economica accompagnata alle illegalità ed il terrore eser­citati contro i portatori di opinioni diverse, per la sostituzione dell'econo­mia di mercato con l'economia di comando centralizzata, per l'abolizione dei diritti di proprietà, per il soggiogamento dell'educazione, dell'istru­zione, della scienza e della cultura alle finalità politiche e ideologiche e per la distruzione spietata della natura - e dichiara di volersi basare nel futuro sulla legge seguente:

Paragrafo 1: «Il regime comunista in Cecoslovacchia e di conseguenza coloro che hanno collaborato alla sua realizzazione a) negava ai cittadini qualsiasi possibilità di esprimere liberamente la propria volontà politica, li costringeva a nascondere le loro opinioni sulla situazione dello stato e della società, e inoltre, ricorrendo alle persecuzioni contro di loro, le loro fami­glie o i loro vicini, li costringeva a esprimere pubblicamente il loro consen­so a quello che essi consideravano menzogna o crimine; b) sistematica­mente e a lungo infrangeva i diritti umani dei cittadini e in un modo parti­colarmente grave opprimeva certi gruppi politici, sociali e religiosi dei cit­tadini; c) infrangeva i princípi fondamentali dello stato di diritto demo­cratico, i patti internazionali e le leggi stabilite dal partito comunista stesso per cui di fatto ha messo la volontà e gli interessi del partito comunista e dei suoi dirigenti al di sopra della legge; d) usava contro i propri cittadini tutti gli strumenti di persecuzione: li giustiziava e li rinchiudeva nelle pri­gioni e nei campi di lavoro, durante gli interrogatori usava contro di loro metodi brutali, ivi compresa la tortura e esposizione alle sofferenze disu­mane; li derubava; impediva loro di esercitare la professione e negava loro l'accesso all'istruzione e la possibilità di uscire liberamente dal paese; e) per realizzare i propri fini, non esitava a compiere delitti, li rendeva im­punibili ed offriva vantaggi a coloro che vi avevano partecipato; f) dal 1968, manteneva questo stato di cose con l'aiuto dell'esercito di occupa­zione di una potenza straniera».

 

Ne consegue, al paragrafo 2, che "il regime comunista era criminale, il­legittimo e degno di resistenza anche armata e che il partito comunista era un'organizzazione criminale assieme a tutte le altre organizzazioni fondate sulla sua stessa ideologia». Inoltre, al paragrafo 3, si legge che "la re­sistenza contro questo regime condotta anche dall'estero e in colla­borazione con potenze straniere democratiche (anche armata) era giusta, legittima e rispettabile". Importantissimo è il paragrafo 5 che stabilisce che «i termini di prescrizione non riguardano il periodo dal 25 febbraio 1948 al dicembre 1989, in cui non era possibile perseguire questi reati». Il pa­ragrafo 7 è di fatto una modificazione della legge sulle restituzioni che sol­leva il richiedente dall'obbligo di dimostrare lo stato di costrizione quando cedeva la sua proprietà allo stato in quanto si presume, in coerenza con la legge, che tutti gli atti di questo regime erano arbitrari. Questa legge di­venta valida l'1 agosto 1993.

Il gruppo di parlamentari che hanno presentato questa legge hanno prodotto anche una parte argomentativa o duvodova che è di estrema importanza per chi cerchi di comprendere la filosofia politica cui tutta la legge si ispira. A proposito del paragrafo 2, si dice: «Nel primo verso del secondo paragrafo si dichiara col richiamo al primo paragrafo l'illegit­timità, criminalità e condannabilità del regime comunista. I termini "crimi­nalità e condannabilità", salvo i casi in cui si trattava dell'infrazione delle leggi allora valide, dobbiamo considerarli come attinenti alla sfera politica e etica piuttosto che specificamente giuridica. Legittimità o illegittimità è un termine che ha un significato giuridico più profondo di quello di le­galità. Riteniamo che criteri o meglio "indicatori" di illegittimità di un re­gime possano essere definiti così: a) il fatto che le leggi oppure procedure sistematiche degli organi di stato sono in una contraddizione radicale e durevole con i princípi morali e politici della società; b) il fatto che non si tratta di leggi reali, ma di arbitrio esercitato da parte dello stato o di certi gruppi di cittadini su altri gruppi di cittadini; c) il fatto che non vi è alcuna via legale per cambiare o riparare questa situazione oppure che questa esi­ste solamente sulla carta per cui di fatto l'unica via al cambiamento è la violenza.

Il regime comunista rispondeva a tutti e tre questi criteri di illegittimità. Tuttavia ciò non implica che tutte le leggi, circolari e altre prescrizioni valide nel periodo esaminato, verranno dichiarate non valide. La di­chiarazione di nullità delle leggi o delle prescrizioni di quel periodo deve essere decisa di caso in caso visto che alcune regole devono essere sempre valide per cui la loro legittimità (come ad esempio quelle del traffico) non deriva diretta­mente dalla legittimità del regime che le ha imposte».

La legge ha sollevato due questioni importanti. In primo luogo, tutto un gruppo di cittadini molto numeroso, tutti quelli, cioè, che erano iscritti al partito comunista o alle organizzazioni ad esso collegate, sono stati ora definiti colpevoli "in genere" da una legge specifica pur senza aver com­messo crimini specifici: i critici di questa legge hanno insistito sul fatto che essa fa diventare tutti gli ex-comunisti in un certo senso cittadini di secon­da classe, anche se non viene esercitata alcuna discriminazione esplicita nei loro confronti.

In secondo luogo, vi è una questione più generale: può in un regime liberal-democratico essere legittimamente conferita la forza di leg­ge ad un giudizio storico, filosofico o teorico-politico? Ad esempio, se un professore di storia insegna agli studenti la storia del comunismo inter­nazionale o cecoslovacco in termini diversi da come è stata fissata dal preambolo della legge, commette un reato? Gli autori della legge sono stati accusati di confondere la colpa storica con quella criminale e civile. Vaclav Zak, ex-vicesegretario del Movimento civico (Obcanske hnuti - oggi tra­sformato in Partito di democratici liberi) e oggi direttore del mensile Listy (fondato in Italia dall'esule Jiri Pelikan, direttore della TV durante la Primavera di Praga, diventato più tardi eurodeputato socialista italiano) sosteneva che "la legge ha costruito una responsabilità che non è né civile né penale". Sosteneva anche che con questa legge si era innescato un processo in virtù del quale il governo democratico tende ad assomigliare a quello comunista, in quanto divide i cittadini in quelli di prima classe e quelli di seconda classe. Grulich, un esponente del partito socialdemocratico, sospetta inoltre che la legge sia "di fatto" retroattiva e ciò per effetto del paragrafo 5 che fa decorrere i termini di prescrizione solamente dal momento in cui era possibile perseguire effettivamente i reati commessi nel passato, cioè dal dicembre 1989.

 

 

4. Il giudizio storico e il concetto di legittimità

 

Voglio ora riflettere brevemente sulla filosofia politica che sottostante alla legge n.198/1993.

Due problemi mi sembrano particolarmente importanti: quello del rapporto tra il giudizio storico e la legalità e quello della definizione della differenza tra la legittimità e la legalità. Il preambolo, infatti, dichiara il regime colpevole per la distruzione dei valori tradizionali della civiltà occidentale, per la violazione intenzionale dei diritti umani, per la decadenza morale ed eco­nomica del paese, per i crimini giudiziari ed il terrore esercitato contro gli oppositori, per la sostituzione dell'economia di mercato con l'economia sta­talista, per l'annullamento dei diritti di proprietà e per aver soggiogato l'educazione e la cultura in generale alle finalità politiche e ideologiche. In­fine, il regime viene accusato per la distruzione spietata della natura.

Il preambolo della legge n.198 definisce in realtà un tipo di colpa che definirei "colpa storica". Propongo di definire la colpa storica così: si tratta di azioni le cui conseguenze si rivelano come sommamente ingiuste, se va­lutate dal punto di vista basato sulle informazioni di cui disponiamo oggi; è questo aumento di informazioni disponibili che trasforma l'agire "giusto" di allora in un agire "ingiusto" di oggi. La colpa sta nel non aver previsto certe con­seguenze oppure nell'avere negato la voce a certi gruppi di uomini che anticipavano nei loro trattati scientifici le conseguenze inintenzionali distruttive di un certo modello di razionalità economica e politica. Co­munque l'aumento di informazioni o l'emergere di un nuovo punto di vista sui fatti o di un valore più universale che implica una ridefinizione delle responsabilità per le azioni intraprese in base ai valori del passato, è sempre legato all'irruzione nella società di nuovi linguaggi che delegittimano le vecchie narrazioni cambiando la valutazione delle loro conseguenze. Le con­seguenze "criminali" o semplicemente "inaccettabili moralmente" di certe azioni diventano visibili grazie al mutamento del contesto storico, cioè, grazie all'emergere di un nuovo linguaggio che prevale sui linguaggi ege­monici del passato, rendendoci così accessibili gli aspetti occultati di certi avvenimenti e rendendoci pure sensibili ad essi - questi mutamenti cognitivi e etici sono la condizione che ci permette di formulare un giudizio storico sulle azioni compiute nel passato da gruppi di uomini individuabili e guidati da interpretazioni stori­camente documentabili delle situazioni.

Dopo la seconda guerra mondiale e in conseguenza di essa, cambia in Europa occidentale in modo radicale il quadro storico delle definizioni delle situazioni che hanno caratterizzato un'epoca - la lotta contro la diseguaglianza sociale, la lotta di classe, deve ora integrarsi nel quadro dei valori e delle istituzioni democratiche per cui i partiti che ad essa si richiamano debbono ridefinire il loro rapporto con lo Stato "borghese", con le sue istituzioni e la sua legalità (pensiamo a Bad Godesberg o alle scissioni del socialismo italiano). Il giudizio storico su certe azioni si distingue da tutti i giudizi contestuali concernenti le stesse azioni per il fatto che il giudicante dispone sia di punti di vista nuovi sia di più informazioni rispetto a coloro che compivano quelle azioni, cioè rispetto ai giudicati; l'egemonia di un linguaggio e di un quadro vincolante di definizione della situa­zione è stata spezzata. La questione ora è: può un giudizio storico diventare legge? Non è sempre ingiusto nei confronti di coloro che agivano "allora"?

In secondo luogo il preambolo sostiene che la legittimità ha un signi­ficato più generale che la legalità, in quanto fonda "argomentativamente" la legge. Come inten­dere questa differenza? Weber definisce la legittimità come consenso gene­rato dalla conformità delle leggi o alla tradizione, o all'idea di legalità o al carisma. La società moderna è caratterizzata, secondo Weber, dalla fede nella legalità, per cui sono legittime quelle leggi che portano i segni for­mali della legalità. "La forma moderna di legittimità è la legalità" scrive Weber. Ecco il celebre commento di Karl Schmitt:

 

"In un sistema moderno, cioè, industrializzato, altamente organizzato e specializzato, fondato sulla divisione del lavoro, legalità significa un determinato metodo di lavoro e di funzionamento degli uffici. Le procedure di disbrigo degli affari, la routine e le abitudini degli uffici, il funzionamento in qualche modo prevedibile, la preoccupazione per il mantenimento di questo tipo di struttura e l'esigenza di una copertura nei confronti di un'istanza di responsabilità: tutto ciò appartiene al complesso di una legalità concepita in termini funzionalisti­co-burocratici. Se un sociologo come Weber afferma: «la burocrazia è il nostro destino» e noi dobbiamo aggiungere: «la legalità è il modo di fun­zionamento di questa burocrazia» (1972: 284).

 

Il Partito comu­nista era una burocrazia proprio in questo senso, per cui tutto ciò che esso faceva era ipso facto legale. Viceversa la legge di cui discutiamo stabilisce esplicitamente una dif­ferenza tra la legittimità e la legalità obbligandoci, in quanto cittadini, a te­nerne sempre conto nel compiere le nostre azioni. Si tratta di una diffe­renza che sta alla base della politica come tale e cui si ispirano le azioni del governo post-comunista. Essa è irriducibile alla legalità e questa sua irriducibilità è un principio politico e morale insieme, che deve informare tutte le azioni politiche in una società democratica.

In che cosa consiste la differenza tra la legittimità e la legalità? Rica­pitoliamo i tre elementi i quali, secondo i proponenti della legge, definisco­no l'illegittimità di un regime: 1) una contraddizione radicale e duratura con i principi morali e politici della società; 2) la non-conformità all'idea di legge che trasforma il dettato di legge in un arbitrio imposto da un gruppo sull'altro; 3) l'inesistenza di una via legale per cambiare la legge.

Credo di poter riformulare la concezione di legittimità implicita alle te­si dei proponenti della legge in questo modo. Una legge è legittima "solamente e solo se" si basa su questi tre princípi: 1) sul principio di storicità, 2) sul princípio di auto-inclusione del legislatore e 3) sul princípio di correggibilità (o falli­bilità).

Il princípio di storicità stabilisce che nessuna legislazione si può richiamare a princípi non storici, cioè radicalmente diversi da quelli che la società storica considera come "bene", cioè l'ispirazione del legislatore non deve essere "utopica". Il princípio di auto-inclusione dice che la legge deve valere anche per il legislatore, ossia che la legge deve valere universal­mente. Infatti, un tratto tipico del potere comunista era ciò che si chiamava "il punto di vista di classe" che introduceva nella società e nel funziona­mento dello stato un'urgenza storica tale da giustificare il predominio del­l'interesse di classe sulla legalità, sulle leggi in generale. Un potere che traeva la legittimità storica dall'urgenza inprocrastinabile dei suoi fini, vedeva nella legalità e nell'idea stessa di legge un mero ostacolo alla sua missione nella storia dell'umanità. Infine il princípio di correggibilità stabi­lisce che nessuna legge può essere legittima se non prevede la possibilità di essere modificata legalmente da coloro che la debbono rispettare.

Non possiamo negare che la definizione di legittimità desunta dalle ar­gomentazioni dei proponenti della legge n.198 acquista un interesse note­vole sullo sfondo delle discussioni contemporanee sulla legittimità, particolarmente nel contesto del rischio ambientale.

 

5. La colpa storica del comunismo: il confronto con il nazismo

 

  L'Europa ha già affrontato il problema della colpa storica dopo la Se­conda guerra mondiale. Ricordiamo anzitutto un problema sovrastante, in­quietante, ingombrante che caratterizza sia il comunismo sia il nazismo: la forza legittimante e normalizzante della forma-stato. Il comunismo e il nazismo sono dei movimenti politici che hanno assunto la forma di Stato e in quanto tale, nonostante l'aberrazione di potere che era consustanziale ad essi, sono stati rispettati dalla comunità di altri Stati. È stato Solzenicyn che ha indicato con grande forza lo scandalo etico insito proprio in questa tendenza a considerare legittimo ogni potere che si è dato la forma di Stato; dal suo punto di vista religioso e "irrealistico", questo scandalo è il problema cen­trale del secolo dei totalitarismi. Il concetto di diritti umani si oppone dal­l'inizio a questa identificazione del diritto con lo Stato.

Vorrei menzionare tre grandi interpretazioni della colpa tedesca, cioè quella di Jaspers, di Adorno e di Arendt. Jaspers distingue tra la colpa cri­minale, morale, metafisica e politica. Sottolinea che noi possiamo com­prendere il nazismo solo a condizione di renderci conto che nella nostra cultura c'è qualcosa di oscuro che si è manifestato nel nazismo nel modo più intenso, per cui tutta la nostra cultura ne è compromessa nei suoi fon­damenti. Ma il punto essenziale è ciò che Jaspers ha chiamato "buona coscienza nel fare il male" che caratterizza queste forme di colpa:

 

"Infatti, lo Stato tedesco di fatto è stato incondizionatamente identificato con la nazione tedesca e con il suo esercito, ecco la colpa della falsa coscienza. ... così divenne possibile che gli uomini in nome della loro lealtà verso la na­zione partecipavano al male o sopportavano qualcosa che era chiaramente un male. Da qui la buona coscienza nel male".

 

Un altro punto è la colpa degli altri, ad esempio la Chiesa cattolica ha promosso il Concordato con lo Stato nazista, il che ha demoralizzato i nemici interni del nazismo.

Adorno ha sollevato, nelle sue celeberrime riflessioni su Auschwitz, la que­stione del male insito nella modernità occidentale dalle sue origini, del fondamento ambivalente della razionalità moderna.. Nella razionalità delirante dell'olocausto dobbiamo riconoscere, sostiene Adorno,  uno dei possibili esiti della razionalità illuminista, una delle possibili forme della razionalità moralmente neutrale ed efficientista, una aberrazione resa possibile dalla in trasparente routine quotidiana imposta dalla razionalità efficientista a tutti gli individui. Il male totalitario implica un insieme di pratiche – classificare, discriminare, ridurre gli uomini a meri funzionari,sfruttarli, strumentalizzarli – che non sono nel loro complesso che un'evoluzione dei comportamenti richiesti “dall’etica” su cui si fonda l'amministrazione efficiente e razionale dello Stato industriale. La società amministrata può trasformarsi in qualsiasi momento, ed in un modo repentino ed imprevedibile, in un Auschwitz generalizzato in quanto si nutre di indifferenza davanti alla vita, davanti alla “caducità” di ciò che nasce e muore. Le ecatombi orribili degli animali cui assistiamo nell'ambito della lotta al BSE e all'afta epizootica testimoniano in modo convincente queste potenzialità dello Stato industriale.

Ecco un passo centrale della critica di Adorno alle radici metafisiche dell'olocausto:

"La morte, con l'assassinio burocratico di milioni di persone, è diventata qualcosa che non era mai tanto da temere. Non c'è più alcuna possibilità che essa entri nella vita vissuta dei singoli come un qualcosa che concordi con il suo corso. L'individuo viene spossessato dell'ultima e più misera cosa che gli era rimasta. Poiché nei campi di concentramento non moriva più l'individuo, ma esemplare, il morire deve attaccarsi anche a quelli sfuggiti a tale misura. Il genocidio è l'integrazione assoluta che si prepara ovunque, dove gli uomini vengono omogeneizzati, scafati - come si dice in gergo militare - finché li si estirpa letteralmente, deviazioni dal concetto della loro completa nullità. Auschwitz conferma la norma filosofica della pura identità come morte" (1970, 327).

 

Nella prospettiva di Adorno tutta la civiltà occidentale privilegiava nei suoi concetti costitutivi la trascendenza, l'eternità, l'essenzialità e svalutava la consistenza di ciò che è immanente al corpo vivente, i concetti e esperienze mortali: i concetti costitutivi della razionalità occidentale privilegiando le essenze eterne  contro l'inessenzialità dei corpi viventi, del senso della mortalità, sono altrettanto indifferenti alla sofferenza del vivente come "lo stivale delle SS".

Infine Arendt, nel suo volume La banalità del male dedicato al processo contro Eichmann celebrato a Gerusalemme nel 1961, interpreta il nazismo come degenerazione di una virtù, dell'oggettività e neutralità, su cui si fonda l'etica della burocrazia. Eichmann è banale nel senso che la banalità del male, cioè la sua sistematicità e diffusione, dipendevano proprio dalla neu­tralità, dall'indifferenza al punto di vista altrui, dall'incapacità di mettersi dal punto di vista degli altri, che è inerente alla razionalità burocratica.

 

"…quando io parlo della "banalità del male", lo faccio su un piano quanto mai concreto. Eichmann non era uno Iago né un Macbeth, e nulla sarebbe stato più lontano dalla sua mentalità che fare il cattivo - come Riccardo III - per fredda determinazione….è certo che non avrebbe mai ucciso un suo superiore per ereditarne il posto. Per dirla in parole povere, egli non capì mai che cosa stava facendo. … Non era uno stupido; era semplicemente senza idee… e tale mancanza d'idee ne faceva un individuo predisposto a divenire uno dei più grandi criminali di quel periodo… lontananza dalla realtà e quella mancanza d'idee possono essere molto più pericolose di tutti gli istinti malvagi che forse sono innati nell'uomo…Certo, per chi si interessa di politica e di sociologia è importante sapere che per sua natura ogni regime totalitario e forse ogni burocrazia tende a trasformare gli uomini in funzionari e in semplici rotelle dell'apparato amministrativo, e cioè tende a disumanizzarli. E si potrebbe discutere a lungo e proficuamente  su quel governo di nessuno che è in realtà la forma politica nota col nome di burocrazia" (Arendt, 1964, 291-292).

 

Nelle riflessioni dell'Arendt riconosciamo un punto essenziale, cioè la forza normalizzante dell'apparato dello Stato, della burocrazia. Primo Levi ha descritto in modo immortale la produzione industriale dei cadaveri che grazie alla sua mostruosa normalità non viene più vissuta come un crimine orribile, bensì come un dovere (un po' spiacevole) impostoci dalla nostra professione: il neutrale "quanti pezzi da smaltire" al posto del meno neutrale "quanti uomini uccidere".

 Il punto è dunque questo: deve essere considerato colpevole il cittadino che si limita ad ubbidire al dettato delle leggi criminali o il funzionario di Stato che si limita a eseguire in modo neutrale e oggettivo le decisioni prese in modo proceduralmente corretto dalle autorità supreme?

"Non mi compete giudicare né queste leggi né queste decisioni e questa stessa mia astensione dal giudicarle è una norma morale fondamentale, quella del funzionario di Stato" potrebbe dire questo cittadino - esecutore, ma allora a chi compete di giudicare, o meglio chi deve giudicare? Il dovere di dare un giudizio sulle leggi, di di­sobbedire eventualmente ad esse - ecco una questione terrificante di quest'epoca della banalità del male.

Il comunismo, cioè il regime instaurato dai partiti comunisti nel mon­do e particolarmente in Cecoslovacchia, si differenziava comunque dal nazismo per un punto importante: le leggi, la Costituzione, dichiaravano princípi di libertà, di uguaglianza e garantivano a tutti ogni sorta di diritti, ma chi esi­geva che lo Stato e il Partito rispettasse la "legalità socialista" veniva perseguitato. Il regime comunista era basato, nel suo funzionamento generale, sul totale disprezzo delle proprie leggi. Il Partito si ispirava nelle sue azioni politiche all'idea di uno stato d'emergenza permanente, richiesto dalla guerra di classe, che costringeva oggettivamente il Partito a far prevalere l'interesse di classe sull'idea di legge. Chi esigeva il rispetto delle leggi diventava automaticamente un nemico di classe.

La Primavera di Praga, la Charta 77 e tutte le diverse critiche mosse al comunismo reale dai comunisti riformisti avevano un punto in comune, quello, cioè, di voler costringere il Partito a rispettare "almeno" la legalità socialista, di dichiarare la fine della lotta di classe intesa come princípio informatore dello Stato. La legge n. 198 di cui discutiamo di­mostra, comunque, che il regime democratico risorto nel 1989 non vuole ricollegarsi alla tradizione riformista comunista, ma respinge l'eredità comunista in toto.

Possiamo concludere il confronto tra il nazismo e il comunismo con questa formula: i comunisti erano cattivi cittadini dello Stato che loro stessi hanno creato, in quanto - nel nome degli interessi di classe la cui difesa era ai loro occhi più importante e urgente di ogni precetto morale o dettato di legge - non rispettavano la legalità socialista stessa. Viceversa i cittadini tedeschi del periodo nazista discriminavano gli ebrei "secondo la legge", cioè hanno commesso il male morale come "buoni cittadini", dato che il loro Stato era "criminale".

La ragion di Stato, la conoscenza specializzata e l'efficienza economica come imperativi incorporati nello Stato industriale, costituiscono un quadro politico che può facilmente "normalizzare" una criminalità totalitaria, legittimare i comportamenti in qualche modo "folli". Questo tema della normalità del male, della sua razionalità, diventa eccezionalmente attuale sullo sfondo del rischio ambientale, specificamente dei rischi imposti all'umanità (ed agli esseri viventi nel loro insieme) ad esempio dai cambiamenti climatici antropogeni. Un cittadino ligio ai valori e alle norme del proprio Stato, un americano elettore di Bush, potrebbe essere condannato da una corte che si richiamerebbe ad un concetto radicalizzato di "diritti umani" per "crimini contro l'umanità" che ha commesso semplicemente attraverso il suo modo consumistico ed egoistico  di vivere.

Ecco ad esempio un passo dalla lettera del presidente Bush ad un gruppo di senatori:

 

"As you know, I oppose the Kyoto Procol because it exempts 80% of the world, including major population centers such as China and India, from compliance, and would cause serious harm to he U.S. economy. The Senate's vote, 95-0, shows that there is a clear consensus that Kyoto Procol is unfair and ineffective means of adressing global climate change concerns…At a time when California has already experienced energy shortages, and other Western states are worried about price and availability of energy this summer, we must be very careful non to take actions that could harm consumers. This is especially true given the incomplete state of scientific knowledge of the causes of, and solutions to, global climate change and the lack of  commercially available technologies for removing and storing carbon dioxide.. ."

 

Vediamo come il quadro normalizzante costituito dai concetti di "unfair o meglio di “svantaggio competitivo", di "interesse economico", di conoscenza "incompleta" (la conoscenza scientifica è incompleta per definizione), di scarsità o di "danno ai consumatori" legittima i comportamenti che possono essere definiti come “minacce gravi all’ambiente” e dunque come "crimini contro l'umanità".  Il punto essenziale è l’argomento che concerne l’esenzione del 80% dell’umanità:  se infatti il modo di vivere  consumistico,  che è legittimo negli USA,  venisse esteso a tutti gli uomini del pianeta, lo sviluppo economico diverrebbe insostenibile  dal punto di vista ambientale. La crescita economica è dunque in contraddizione con l’imperativo categorico di Kant, con l’obbligazione di pensare i nostri valori come universali in linea di principio.

 Prendendo a prestito i concetti proposti da Baumann nelle sue riflessioni sulla "sociologia dopo l'olocausto" potremmo analizzare questo quadro come strutture simboliche capaci di produrre, con grande efficacia, l'indifferenza morale verso il male e la sua invisibilità morale che è la precondizione di un'istituzionalizzazione generalizzata dell'irresponsabilità. Il regime comunista, nell'interpretazione che ne danno i proponenti della legge n.198, è un quadro istituzionale che in nome della ragion di Stato socialista e della guerra di classe normalizza e legittima la più totale irresponsabilità politica, sociale, morale ed intellettuale dei cittadini.  

 

Riferimenti bibliografici

 

Adorno T.W. (1970), Dialettica negativa, Einaudi, Torino.

Arendt H. (1964), La banalità del male, Feltrinelli, Milano.

Baumann Z. (1992), Sociology after the Holocaust, in "The British Journal of Sociology", vol.XXXIX, n. 4

Gellner E. (1992), Nazioni e nazionalismo, Editori Riuniti, Roma.

Jaspers K. (1965), Schuldfrage, Piper, Monaco.

Schmitt C. (1972), Le categorie del politico, Il Mulino, Bologna.

Weber M. (1961), Economia e società, Comunità, Milano.

 

 

 

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